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Caszely-Pinochet, il calcio contro la dittatura

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Il golpe cileno dell’11 settembre 1973 cambia definitivamente gli equilibri politici del Sudamerica e del mondo occidentale, ma come può un evento così drammatico intrecciarsi con il calcio e con la carriera di Carlos Caszely, giovane attaccante cileno di origini ungheresi?

L’11 settembre cileno

Il 21 novembre 1973 a Santiago del Cile si giocò la “partita” più surreale della storia del calcio.
In tale data era infatti stata programmata la gara di ritorno dello spareggio valevole per la qualificazione al Mondiale di Germania 1974 tra Cile e Unione Sovietica. 

La gara di andata si era giocata a Mosca il 26 settembre e nonostante i sovietici, vicecampioni d’Europa uscenti e favoriti dello spareggio, dominarono la partita e assediarono la porta cilena, il risultato finale fu 0-0, soprattutto grazie alle parate di Vallejos, rimandando alla gara di ritorno tutti i discorsi. Già prima del match di andata si era però verificata una situazione che avrebbe cambiato gli equilibri geopolitici del continente americano e dell’Occidente. 

Da circa due mesi infatti il Cile era caduto sotto la bieca, spietata e sanguinaria dittatura militare del Generale Pinochet. Era l’11 settembre 1973 quando Salvador Allende, il primo presidente di ideologia marxista ad essere eletto in elezioni in uno stato di diritto, venne spodestato da un golpe militare – appoggiato dagli Stati Uniti – e sostituito con il generale Augusto Pinochet, nominato alla guida delle forze armate dallo stesso Allende. Quest’ultimo, quando i carri armati invasero le strade di Santiago, circondando il palazzo presidenziale, decise di non scappare, ma nemmeno di consegnarsi ai militari, morendo probabilmente suicida nel palazzo presidenziale della Moneda.

Allende scortato durante il golpe
Una delle ultime foto che ritrae vivo Salvador Allende (📷/GettyImages)

Da documenti da breve desecretati si è scoperto che il Golpe Pinochet fu frutto di una strategia diretta della Casa Bianca. Lo scopo della politica degli USA era logorare l’uomo che aveva osato rompere il controllo statunitense sull’America Latina con un progetto politico nuovo e diverso, ossia il socialista Salvator Allende. Boicottarlo con pressioni sulle principali multinazionali affinché abbandonassero il Paese, facendo crollare il prezzo del rame, tra i principali prodotti esportati dal Cile, esasperando una popolazione che si trovava senza più aiuti e spinta verso l’abisso della povertà. Fare di tutto per affossarlo.

Nixon e Kissinger
Nixon e Kissinger a colloquio (📷/GettyImages)

Fu soprattutto Henry Kissinger, all’epoca segretario alla Sicurezza nazionale, a sollecitare il presidente Richard Nixon per una linea d’intervento più diretta, poco condivisa dagli altri consiglieri della Casa Bianca favorevoli invece a quella che fu chiamata la “strategia del modus vivendi“: appoggiare i partiti dell’opposizione cilena, di centro e di destra, in vista delle elezioni che si sarebbero tenute nel 1976.

Questo appoggio ai partiti rivali di Allende si sostanziò dapprima nel tentativo di golpe avvenuto nel 1973 quando un reggimento corazzato al comando del colonnello Roberto Souper circondò la Moneda durante il cosiddetto Tanquetazo. Quel colpo di Stato fallito venne seguito da un ulteriore attacco alla fine di luglio, cui questa volta si aggiunsero anche i minatori di rame di El Teniente.

Il 9 agosto il generale Prats venne nominato Ministro della difesa e vicepresidente, ma Prats a seguito l’incidente automobilistico fu costretto a dimettersi da ministro e da comandante in capo dell’esercito. Allende il 22 agosto 1973 nominò al suo posto proprio Augusto Pinochet come nuovo comandante dell’Ejército de Chile.

Le ultime parole che il presidente cileno rivolse al popolo, con un impressionante discorso che fu trasmesso da Radio Magallanes, emittente del Partito Comunista cileno, saranno ricordate negli anni a venire: “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, perlomeno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento“. Salvator Allende viene trovato morto, forse si è suicidato o forse è stato ucciso.

La partita fantasma di Santiago del Chile

Torniamo al calcio. Tra le due partite ci furono due mesi di tensione: la federazione sovietica non voleva andare in Cile e chiese di spostare la partita in campo neutro, proponendo qualunque stadio della Germania Ovest. Ma le massime autorità calcistiche rifiutarono.

Successivamente, quando venne reso pubblico che lo stadio Nacional di Santiago era diventato un campo di detenzione e tortura per i prigionieri politici, da Mosca arrivarono nuove proteste all’indirizzo della Fifa a cui la federazione cilena, dapprima imbarazzata per la situazione, propose timidamente di spostare il match a Vina del Mar, trovando però un netto rifiuto dal generale Leigh che si espose in prima persona indicando che l’unico stadio in cui la partita si sarebbe giocata sarebbe stato quello di Santiago.

Al fine di soddisfare le richieste mosse dalla federcalcio russa il 24 ottobre la FIFA inviò i suoi ispettori a verificare le dicerie sullo stadio Nacional: la spedizione formata dal vicepresidente della commissione arbitrale, il brasiliano Abilio de Almeida, e dal segretario generale Helmut Kaeser, uno svizzero, trovò sugli spalti alcune migliaia di oppositori, ma li ravvisò appena. “Visitarono solo il campo, guardandoci da lontano”, raccontò Gregorio Mena Barrales, governatore di Puente Alto, detenuto in quei giorni.

Militari all'Estadio Nacional
Clima disteso (📷/GettyImages)

Le forze dell’ordine ripulirono lo stadio e spostarono i detenuti in altri edifici così da prepararsi per l’ispezione della FIFA. La commissione, dopo un sopralluogo superficiale e pilotato, decise che si poteva giocare. “Tranquillità totale”, così venne scritto nel rapporto. L’ispezione dello stadio terminò con un colloquio con i militari cileni che spiegarono come lo stadio non fosse il centro di detenzione e tortura decantato dalla stampa ma solo un luogo di verifica delle identità dei catturati che venivano poi trasferiti nelle prigioni nazionali; versione che la FIFA accettò archiviando così il problema.

Questa tensione crebbe rapidamente e poco dopo dal Cremlino arrivò lo stop alla Nazionale attraverso un telegramma inviato alla FIFA: “Per considerazioni morali gli sportivi sovietici non possono giocare nello stadio di Santiago macchiato dal sangue dei compatrioti cileni”, aggiungendo a mezzo stampa che la Federazione era disponibile di organizzare la partita in qualunque stadio e in qualsiasi momento ma non a Santiago dove le condizioni umane non erano garantite.

La partita fantasma
La partita fantasma dagli spalti (📷/GettyImages)

Una volta che fu ufficiale il ritiro da parte della Nazionale sovietica, il Generale Pinochet decise di sfruttare tutto l’impatto mediatico che una qualificazione ai Mondiale poteva creare organizzando una partita fantasma con presente la sola Nazionale cilena. Questa pantomima si “giocò”, come stabilito, nello stadio Nacional e coinvolse i giocatori della Nazionale: i cileni, di fronte a 18.000 persone, batterono il calcio d’inizio, si passarono la palla più volte e avanzando verso l’area segnarono il gol che metaforicamente avrebbe dato la qualificazione ai prossimi Mondiali.

In questa “partita” entrò in scena il protagonista della nostra storia: Carlos Humberto Caszely.

La storia di Caszely

Al momento del colpo di stato, Carlos Humberto Caszely, 23 anni, era appena volato in Europa.
El rey del metro cuadrado” era l’unico giocatore cileno nel Vecchio Continente, essendo il centravanti del Levante allora militante nella seconda divisione spagnola.

Politicamente era un dichiarato sostenitore della sinistra cilena: vicino alla coalizione di Unità Popolare e sostenitore di Salvador Allende. Durante le elezioni legislative del marzo 1973, la parlamentare comunista Gladys Marin disse di lui che “non è solo un grande sportivo, ma anche un giovane che capisce il processo rivoluzionario che sta attraversando il suo paese”.

Figlio di padre ungherese (da qui il suo cognome atipico) inizia la sua carriera nelle giovanili del Colo Colo fino ad esordire in prima squadra nel 1967 contro il Santiago Morning a soli 17 anni. Resterà nel Colo Colo fino al 1973, quando appunto si trasferirà al Levante dopo aver vinto i campionati nazionali del 1970 e 1972 ed essere diventato capocannoniere della Coppa Libertadores 1973 persa in finale contro l’Indipendiente. La finale di Copa Libertadores si concluse alla terza partita dopo che le gare di andata e ritorno terminarono in parità. Nella terza partita, giocata sul campo neutro dell’Estadio Centenario di Montevideo, l’Indipendiente si impose per 2-1 sul Colo Colo e Caszely siglò il gol del momentaneo pareggio dei cileni.

La stagione calcistica 1973/1974 per Caszely si apre così con due importanti novità: il trasferimento in Europa e lo spareggio con la Russia per la qualificazione ai Mondiali del 1974. Torniamo così al 21 novembre 1973: Caszely riferendosi a quel giorno lo descrive come “la cosa più assurda che abbia mai visto”.  L’uomo designato a segnare era Francisco Valdez, bandiera di quella squadra e del Colo Colo, ma soprattutto figlio di operai e militante di sinistra da sempre come il suo compagno Caszely che gli passò il pallone da toccare in rete.

Il cileno aggiunge inoltre particolari impressionanti relativi a quel giorno, affermando che “mentre andavamo allo stadio ci fermavano i parenti dei sequestrati e chiedevano di verificare se i loro cari erano nello stadio”, e “fu la Fifa a ordinarci di giocare e di fare quel gol”, seguito dal suo compagno Francisco Valdez che esternò anch’egli tutta la sua indignazione: “Una farsa, una menzogna assoluta, contro tutta la filosofia e l’essenza dello sport. Avevamo i brividi per essere in un luogo di tortura e di morte, provavamo dolore e angoscia. Ma noi giocatori non potevamo fare altro che difendere il nostro Paese”.

Caszely e Valdez
Caszely e Valdez (📷/GettyImages)

L’incontro ufficiale tra Pinochet e Caszely avvenne prima della partenza della squadra cilena per la spedizione mondiale. Durante l’incontro il dittatore strinse le mani di tutti i nazionali ma quando fu il turno di Caszely questo restò con le braccia conserte evitando così il contatto con il tanto odiato sanguinario dittatore cileno. Più tardi l’attaccante dichiarò “Fui l’unico giocatore che non salutò il dittatore. Avevo paura, ma era quello che dovevo fare. Lo incontrai diverse volte durante la mia carriera, e solo una volta lo salutai”.

Tale gesto, unito ad ulteriori dichiarazioni rilasciate dall’attaccante contro il regime instaurato con la forza dal Generale Pinochet, porteranno nel 1974 alla cattura ed alla detenzione della madre Olga Garrido che, al contrario degli sportivi, non era intoccabile.

Al Mondiale del 1974 il Cile si trova in un girone abbordabile formato da Germania Ovest, Germania Est e Australia. La prima partita in programma era contro la Germania Ovest e fu storica per il centravanti che vanta ancora un record particolare: alla prima partita Caszely fu espulso per un fallo di reazione dovuto ad un calcio a Berti Vogts, con cui sicuramente non condivideva le idee politiche, e diventando così il primo nella storia della competizione a prendere un cartellino rosso (fino agli anni ’70 ammonizioni ed espulsioni erano comunicate solo verbalmente).

I maligni in patria dissero che lo fece per non dover incontrare nella seconda partita i “compagni” della Germania Est e fu accusato di essere traditore della patria e colpevole di vilipendio sportivo. A seguito delle polemiche nate successivamente a quell’espulsione, unite ovviamente alle pressioni del regime, Carlos Caszely fu esiliato dalla Nazionale fino al 1982 quando, a grande richiesta del popolo cileno, fu convocato per il Mondiale di Spagna.

La sua esperienza calcistica in Europa fu positiva e giocando per il Levante segnò 15 gol in 24 partite nella prima stagione e 26 gol in 32 durante la seconda. Nella stagione 1975/76 venne acquistato dall’Espanyol di cui diventò il capocannoniere con 13 gol. Complessivamente per l’Espanyol segnò 29 gol, di cui 20 nella Primera Division spagnola, 8 nella Copa del Rey e 1 in Coppa UEFA. Nel 2015 è stato votato uno dei migliori giocatori della storia dell’Espanyol dai tifosi, guadagnandosi l’onore di avere una delle porte dello stadio Reial Club Deportiu Espanyol de Barcelona intitolata a lui.

Nel 1978 tornò in patria per stare vicino alla madre, sfuggita dai centri di tortura del regime, e trovò di nuovo pronta per lui la maglia del Colo Colo, con la quale diventa capocannoniere per 3 anni consecutivi. Ritorna così a furor di popolo in nazionale e riporta i suoi a un Mondiale, stavolta edizione 1982.

Ad oggi Caszely è uno dei più grandi giocatori della storia del Colo Colo dove ha giocato per 15 stagioni segnando 171 gol e vincendo 5 titoli nazionali e 3 Cope de Chile. Ha anche brillato per La Roja in Sud America, partecipando ai Mondiali del 1974 e 1982, giocando 49 partite e segnando 29 gol. È considerato uno dei migliori calciatori cileni di tutti i tempi, ed è il quinto capocannoniere della nazionale del suo paese, superato da Alexis Sánchez, Marcelo Salas, Iván Zamorano ed Eduardo Vargas.

La sua personale guerra contro Pinochet però non termina con l’esperienza calcistica. Nel 1985 un Carlos trentacinquenne si presenta alla Moneda per un incontro istituzionale con Pinochet.
I due rifiutano nuovamente di stringersi la mano ma questa volta Pinochet chiede a Caszely:

“Lei porta sempre una cravatta rossa?”

“Así es, señor presidente. La porto sempre al collo e nel cuore.”

Pinochet mima il gesto delle forbici, in stile “te la taglierei, e non solo quella”.

“Può farlo ma il mio cuore rimarrà comunque rosso”.

Gelo nella stanza.

Allende e Caszely
Allende con un giovane Caszely (📷/GettyImages)

La fine della dittatura

Il capitolo finale nella guerra tra Caszely e Pinochet si svolge nel 1988. In quell’anno infatti, in accordo con le norme transitorie della nuova Costituzione del Cile (che il dittatore stesso aveva voluto), Pinochet decise, convinto che avrebbe vinto, di indire un plebiscito a ottobre per votare un nuovo mandato presidenziale di ulteriori 8 anni. In questo momento di propaganda, il 21 settembre 1988 un programma televisivo presentato da Patricio Bañados, che faceva parte della campagna per il “no” (campagna peraltro al centro di un film del 2012 di Pablo Larraín intitolato No. I giorni dell’arcobaleno), ha ricordato gli arresti e le torture durante la dittatura.

Sullo schermo, quello stesso giorno, è apparsa una donna chiamata Olga Garrido, che ha denunciato di essere stata rapita, umiliata e torturata. Poi, accanto a lei, quando la telecamera si gira, appare suo figlio, che a sorpresa è Carlos Caszely. “Ecco perché il mio voto è no. Perché la sua gioia, che sta arrivando, è la mia gioia. Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti. Perché domani potremo vivere in una democrazia, libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre”, ha detto il calciatore idolatrato, lasciando gli spettatori a bocca aperta.

La campagna del “no” avrebbe poi vinto con il 55,99% di voti a favore e ha portato il Generale Pinochet ad indire elezioni democratiche che videro la vittoria del Partito Democratico Cristiano del Cile rappresentato da Patricio Aylwin Azócar che divenne così il primo presidente eletto dopo la dittatura di Pinochet. Nel mentre Pinochet mantenne la carica di comandante in capo dell’esercito del Cile democratico, dove restò fino al marzo 1998. Una volta abbandonato questo ruolo, divenne senatore a vita e gli fu garantita l’immunità parlamentare.

Nel 2013 la sua storia venne poi ripresa anche da Eric Cantona durante la serie Football Rebels, la serie di documentari sul mondo dei ribelli del calcio da lui condotta, riportando nel secondo episodio proprio la storia del cileno Carlos Humberto Caszely.

Per chiudere riprendo le parole di una sua vecchia intervista rilasciata a Repubblica nel 2018 , alla domanda su come ricordasse quel gesto rivoluzionario del 1973 la sua risposta fu eloquente quanto potente:

“Ero la voce della gente. Quando viaggiavo per il paese, ne incontravo tanta che non poteva parlare perchè era in carcere oppure aveva timore. In quel momento ero il rappresentante dell’80% del popolo cileno: era mio compito. Io il coraggio l’ho preso non solo da mia madre, torturata dalla polizia segreta, ma anche da mio padre, da mia sorella, dai miei amici, dalla gente che non conoscevo e piangeva poggiata sulla mia spalla. Dovevo farlo.”

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