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Dalla fiaccolata dello stadio Olimpico dritti al cerchio di centrocampo della Cattedrale del Calcio londinese. Questo è un viaggio di tredici settimane che ci porterà in tutta Europa, attraverso le partite dei campioni che hanno reso grande la storia degli Europei. Ripercorriamo le tredici finali attraverso le immagini storiche, i campioni, l’evoluzione tattica e le curiosità che hanno caratterizzato questa competizione e, di riflesso, il calcio mondiale.
Il viaggio parte dall’Europeo 1968 a Roma, data e luogo della finale della terza edizione degli Europei. A sfidarsi gli Azzurri di Riva e Valcareggi e la bella Jugoslavia di Džajić e Mitić.
“È una giornata che vale la storia, una giornata che vale l’Europa. Davanti a 70mila italiani ci siamo noi, i più titolati ai mondiali alla ricerca della vittoria internazionale che manca da ormai 30 anni, dall’altra parte loro, gli slavi belli e maledetti e il sogno di alzare una coppa. Nelle semifinali, hanno battuto i campioni del mondo mentre noi siamo stati baciati dalla fortuna. È Anastasi contro Džajić, Facchetti contro Fazlagić, Valcareggi contro Mitić. Dallo stadio Olimpico di Roma, una buona serata da Fabio Caressa…” “E Beppe Ber–”
Ecco, se è questo il tipo di inizio che vi aspettate, resterete delusi: è un altro calcio, quasi un altro mondo. È l’ultima grande competizione internazionale ad essere trasmessa in bianco e nero, il telecronista fa una radiocronaca pura del match, limitandosi a raccontare ciò che accade nell’atto conclusivo della Coppa d’Europa per Nazioni, e quando si conclude un’azione pericolosa, sullo schermo del televisore a tubo catodico appare la gigantesca scritta RIPETIZIONE, sovrapposta al replay dell’azione dal retro-porta.
La fase finale dell’Europeo 1968 si gioca in Italia, quell’Italia che nella primavera di quell’anno è al culmine del movimento di protesta sessantottino iniziato due anni prima con l’occupazione dell’Università di Trento. Tuttavia, calcio e protesta non si toccano e solo (o quasi) Pier Paolo Pasolini coglierà, già in quell’estate di calcio italiano, l’importanza che il pallone può avere a livello culturale nel Bel Paese. In questo clima politico febbricitante, il tifoso italiano è carico di aspettative.
L’Italia ha una nazionale forte ormai da qualche anno: in porta c’è Dino Zoff, allora 26enne portiere del Napoli, in difesa lo stopper dell’Inter Tarcisio Burgnich, per alcuni il miglior marcatore della storia azzurra, mentre la fascia sinistra è dominata da Giacinto Magno, come Gianni Brera soprannominò Giacinto Facchetti.
Sulla trequarti, l’incredibile staffetta Rivera-Mazzola, a destra l’interista Domenghini mentre le due maglie da punta se le giocano Pierino Prati, milanista, Pietro Anastasi, neo-juventino, e Gigi Riva, già capocannoniere del campionato italiano nella stagione precedente (e nelle due successive).
Eppure, quel tifoso è deluso perché l’Italia non vince una competizione internazionale da trent’anni (ultimo successo al mondiale francese del 1938) e nelle ultime due, l’Europeo spagnolo del ’64 e il mondiale inglese del ’66, si è sempre schiantata sul muro sovietico, che le ha rifilato un 3-1 negli ottavi in Spagna e in Inghilterra ha vinto il girone mentre gli azzurri finivano alle spalle anche della Corea del Nord, dando vita al primo vero dramma collettivo nella storia della nazionale.
Nel 1968, il copione sembrava pronto a ripetersi: dopo aver superato la Bulgaria in rimonta nei playoff validi come quarti di finale, l’UEFA assegna all’Italia l’organizzazione della fase finale ma lo spauracchio sovietico è di nuovo sulla strada azzurra nel cammino verso la finale dell’Olimpico.
A Napoli, la semifinale termina 0-0 dopo 120 minuti di calcio ruvido e, come da regolamento, la vincitrice si decide tramite sorteggio. Leggenda vuole che gli italiani siano abbastanza tranquilli quando i due capitani scendono negli spogliatoi del San Paolo con l’arbitro perché capitan Facchetti al gioco non perde mai. Immediatamente, l’allenatore russo impone al suo giocatore di scegliere fiori ma il capitano dell’Inter sostiene che, dato che i sovietici avevano vinto il sorteggio di inizio partita, spetti a lui scegliere quale lato della moneta privilegiare. L’arbitro acconsente, Facchetti sceglie fiori e l’Italia è in finale.
Qui emergono i problemi: nella semifinale, Gianni Rivera, che l’anno dopo vincerà il pallone d’oro, si è strappato; ha provato a rimanere in campo, riceve anche un’iniezione ma è tutto inutile: per la finale è out.
Allo stesso tempo, Rombo di Tuono non aveva ancora giocato nel torneo continentale a causa dei postumi di un gravissimo infortunio alla gamba sinistra che aveva subito un anno prima, sempre all’Olimpico contro il Portogallo: uscita bassa completamente sbagliata dal portiere lusitano Américo Lopes, Riva investito da un bus e perone rotto in due.
L’ultimo problema, probabilmente il più grande, è dato dall’avversario: la Jugoslavia – che più che una nazionale di calcio è l’incarnazione sportiva dello spirito bohémien del poeta maledetto – ha prima massacrato 5-1 la Francia nel ritorno dei quarti e poi ha sconfitto a Firenze i campioni del mondo dell’Inghilterra per 1-0, grazie ad un gol di Dragan Džajić.
Che giocatore, Džajić! Serbo, ha trascorso tutta la sua carriera alla Stella Rossa di Belgrado dove ha segnato 292 gol in 615 partite, di cui molti impensabili per l’epoca grazie alla tecnica ed alla fantasia dell’artista. Gli slavi arrivano a Roma con l’arroganza di chi sa che di essere bravo e di chi sa di aver appena battuto i più forti di tutti, Gordon Banks, Bobby Moore e Bobby Charlton compresi.
La formazione dell’Italia
L’Italia scende in campo con “il numero 22 Zoff, 5 Burgnich, 7 Castano, 12 Guarnieri, 10 Facchetti, 14 Lodetti, 11 Ferrini, 13 Juliano, 9 Domenghini, 2 Anastasi e 16 Prati”. Un difensore con il numero 10 e un attaccante con il numero 2. Un altro calcio, si diceva. La formazione azzurra subisce le influenze di due grandi correnti calcistiche correlate: il Metodo di Pozzo e il Catenaccio di Rocco e Herrera.
Il Metodo
Il CT della Nazionale bicampione del mondo sviluppò un modulo, da lui stesso chiamato “Metodo”, che era una via di mezzo tra il 2-3-5 tipico dell’Europa centrale e il W-M, “il Sistema”, sviluppato da Chapman nell’Arsenal di inizio anni ’20. La differenza fondamentale tra i due sistemi consisteva nella posizione del mediano: mentre nel primo giocava a centrocampo, permettendo alle mezzepunte di stare sulla linea degli attaccanti, nel secondo era schierato sulla linea dei difensori, facendo abbassare le due punte sulla linea della trequarti (da qui nasce la figura del 10 trequartista).
Nello schema italiano, Luis Monti, oriundo vicecampione del mondo con l’Argentina nel ’30 e campione con gli azzurri nel ’34, venne posizionato in un ruolo intermedio, quello che per noi oggi sarebbe un mediano davanti alla difesa, che aveva il compito di marcare a uomo la punta centrale e di collegare difesa e centrocampo in impostazione, portando le mezzepunte ad aiutare i due centrocampisti.
Questa interpretazione diede grande solidità alla fase difensiva italiana, permettendo di “attaccare con il minor numero di uomini possibile, senza distrarre mai i centrocampisti dal loro lavoro difensivo”, per usare le parole del redattore della Gazzetta dello Sport Mario Zappa.
Questo stile duro ed efficace rappresentava al meglio la filosofia del nuovo uomo italiano imposta da Mussolini, che apprezzava particolarmente, e senza nasconderlo, il lavoro di Pozzo (cosa che costò molto al tecnico nel post-guerra).
Il Catenaccio
Il Metodo venne adottato e perfezionato dal celeberrimo sistema inventato dagli italiani: il Catenaccio. Il primo esponente ad alto livello fu Gipo Viani, allenatore della Salernitana di fine anni ’40, che decise di portare uno dei due centrocampisti in marcatura sulla punta avversaria, permettendo al centrale della linea difensiva (Monti nell’Italia di Pozzo) di scivolare dietro la linea difensiva nel ruolo che caratterizzerà buona parte della storia del calcio italiano: il libero.
Tuttavia, le squadre che resero grande il Catenaccio e il libero furono il Milan di Nereo Rocco e l’Inter di Helenio Herrera. Il libero del tecnico triestino fu Cesare Maldini, ricordato come un difensore pulito e di classe, ma i meneghini divennero famosi per lo stile ruvido che la sua squadra adottò, riassunto nel celebre aneddoto della finale della Coppa Intercontinentale del 1969: “Calciate ogni cosa che si muove; se è la palla, tanto meglio”, si pensa abbia detto Rocco.
Sull’altro lato dei Navigli, l’Inter adottò il Catenaccio inizialmente con Alfredo Foni, che costrinse l’ala destra Gino Armano a coprire in marcatura sull’ala sinistra avversaria, permettendo al centrale di destra di agire da libero. Armano divenne quindi il primo grande tornante della storia italiana, cioè un esterno, solitamente destro, che giocava a tutta fascia. Tuttavia, chi rese celebre il sistema italiano all’Inter e nel mondo fu il mago Herrera.
Il tecnico argentino prese uno dei due centrocampisti del Metodo e lo rese un libero, permettendo al terzino sinistro, Facchetti in quell’Inter e in Nazionale, di sganciarsi a tutta fascia, pur rimanendo più difensivo rispetto al tornante di destra, in entrambe le formazioni Domenghini.
Conseguenza dell’avanzamento del terzino sinistro, fu l’accentramento dell’ala sinistra, che si sviluppò come una vera e propria seconda punta, nel ruolo che renderà celebri Rombo di Tuono e Pierino Prati. Dunque, ecco la chiave per interpretare la formazione azzurra: un libero (Castano), un tornante (Domenghini), un terzino fluidificante (Facchetti) e un’ala sinistra che giocava da seconda punta (Prati).
La formazione della Jugoslavia
Dall’altro lato, gli slavi portano con sé il loro stile caratteristico, quello figlio di Hugo Meisl e Jimmy Hogan. Meisl fu l’allenatore che creò il Wunderteam austriaco di metà ’20, ma fu l’inglese Hogan a portare il calcio nel centro Europa e a creare quella che diventerà nota come la Scuola Danubiana.
Il principio di base del calcio di Hogan e Meisl era semplice: la base del calcio è il passaggio, non il dribbling. Conseguentemente, prima di tutto deve muoversi il pallone. Non era per nulla un concetto rivoluzionario giacché praticato dall’alba dei tempi dagli scozzesi (rispetto allo stile diretto e fisico degli inglesi) ma la Scuola Danubiana lo perfezionò, rendendo le proprie squadre note per l’elegantissima rete di passaggi e l’elevata qualità tecnica dei propri interpreti.
A livello di moduli, la “Jugo” schierava un 4-3-3 molto fluido e orientato dal palleggio dove il centrocampista esterno era a metà tra un’ala e una mezzala, sulla base del ruolo svolto dal brasiliano Mario Zagallo nei mondiali del ’58 e ’62, che rientrava a supportare il centrocampo permettendo a Garrincha di rimanere alto pronto per le sue scorribande. L’attore principale di questo calcio tecnico e fluido era proprio Dragan Džajić, che con la 11 sulle spalle incantava i tifosi serbi ed europei.
Europeo 1968: la finale Italia – Jugoslavia
Palla nel cerchio di centrocampo, fischio dell’arbitro e ci si sente lanciati in un mondo che vagamente ti ricorda il tuo ma è totalmente diverso, come Alice dopo che ha attraversato la tana del Bianconiglio. La differenza principale, e problematica per l’osservatore moderno, è il ritmo: i calciatori di fatto trotterellano per il campo. In quegli anni si sta affermando la grande Dinamo Kiev di Maslov basata su pressing e difesa a zona, ma le idee sovietiche sono tutt’altro che nella mente dei 22 in campo a Roma.
La marcatura strettamente a uomo implica che se l’avversario marcato da un tuo compagno ti passa di fianco, tu lo ignori totalmente come nei momenti peggiori di Cristiano Ronaldo e Leo Messi. Ad ogni modo, fin dall’inizio la Jugo sembra più aggressiva e pronta per il match.
Gli italiani stanno compatti dietro la linea e appena recuperano il pallone lo calciano avanti, ricercando spesso più l’errore dell’avversario che una giocata proattiva, mentre gli slavi tengono più il pallone ma non disdegnano l’imbucata azzardata per Musemić e Džajić.
Tuttavia, le prime occasioni sono proprio azzurre: Ferrini calcia da lontano una palla insidiosa che rimbalza davanti al portiere. Poco dopo, un contrasto di Prati spiana la strada a Facchetti che calcia fuori, colpendola col collo del piede. A ben guardare, effettivamente l’osservatore moderno si può accorgere che tutti calciano solo ed esclusivamente di collo pieno.
Nel prosieguo del primo tempo, sono tre le curiosità che colpiscono l’occhio:
- È regolare per il portiere prendere la palla con le mani dopo un passaggio del compagno, per cui alcune situazioni che oggi ci metterebbero assai in guardia si risolvono in realtà in una comoda presa del portiere nell’indifferenza generale. Questione di abitudine.
- Ben due palloni vengono reputati troppo sgonfi dal solerte arbitro, che li calcia in bello stile per una cinquantina di metri verso la linea laterale. MVP.
- Lo stesso arbitro, quando si batte un corner, non si posiziona al limite dell’area come siamo abituati a vedere ma a fianco del palo fuori dal campo, per poi rientrare in fretta e furia verso il centrocampo. Curiosa strategia.
Dopo le prime occasioni azzurre, la partita prende tutt’altra piega: la Jugoslavia ha il totale controllo del centrocampo, Burgnich non riesce a fermare Džajić e iniziano a piovere occasioni per gli slavi mentre gli italiani fanno estrema fatica ad uscire dalla difesa, anche a causa di una prestazione di Anastasi e Pieri ben al di sotto delle aspettative e della contemporanea assenza di Mazzola e Rivera.
Al 23esimo, l’arbitro svizzero Dienst non fischia un rigore abbastanza evidente per la Jugoslavia, con Ferrini che rovina addosso a Pavlović lanciato in porta. Pochi minuti dopo, Holcer sbaglia una clamorosa occasione di testa su un cross da punizione, colpendo di poco alla destra del palo.
Il dominio della Jugo si concretizza al 39esimo, seguendo una regola non scritta che trapassa i decenni del pallone: gol sbagliato, gol subito. Su un cross dalla fascia, Pantelić sbaglia completamente l’uscita ma Domenghini non riesce a coordinarsi per la battuta a rete; sulla ripartenza, imbucata sul lato corto dell’area di rigore, cross dalla destra e, dopo un liscio della difesa azzurra, Džajić controlla e anticipa Zoff con il sinistro: 1-0 Jugo. Il gol non sveglia gli italiani e gli slavi in maglia bianca continuano nella rete di passaggi, ricercando gli 1vs1 sugli esterni, fino a chiudere un primo tempo totalmente dominato.
Come ad inizio partita, il secondo tempo si apre con un’occasione per gli azzurri: su calcio d’angolo, la palla giunge ad Anastasi a pochi metri dalla porta ma il numero 2 incespica sul pallone e viene recuperato dalla difesa. L’occasione è però solo un fuoco fatuo: intorno al ventesimo, da una punizione per l’Italia, parte un contropiede ottimamente orchestrato della Jugoslavia.
Da un’imbucata molto simile a quella del gol, gli slavi arrivano al tiro che Zoff respinge molto corto sui piedi di Trivić. Clamorosamente, il centrocampista colpisce malissimo la palla a porta vuota, permettendo a Castano di respingere in calcio d’angolo. Tre minuti più tardi, azione personale dell’ala sinistra slava che slalomeggia tra due uomini in area di rigore e tira a pochi centimetri dal palo di destra, mentre Pavlović arriva in scivolata in ritardo di pochi centesimi di secondo. Gli azzurri sono in balia dell’avversario che si esalta nelle proprie trame corali e si specchia nella propria bellezza.
Tuttavia, se c’è una peculiarità con cui la nazionale balcanica è passata alla storia, come direbbe Federico Buffa, è riassumibile in un detto serbo: Umirati u Lepoti, morire nella bellezza. Sì, perché solo le divinità del calcio sanno esattamente quante partite quella nazionale ha dominato in lungo e in largo ma non ha vinto per poco, per pochissimo.
Otto anni prima, al primo Europeo della storia in Francia, la Jugoslavia aveva perso dall’URSS al 113esimo; sei anni prima, al mondiale cileno, era stata sbattuta fuori in semifinale con due gol negli ultimi dieci minuti dalla Cecoslovacchia. Umirati u Lepoti: Ferrini crossa dalla destra, Pavlović frana addosso a Lodetti e Domenghini ha un’opportunità su punizione dal limite dell’area.
Collo pieno come sempre, la barriera si apre e la palla si infila nell’angolo destro: 1-1.
Gli ultimi dieci minuti sono un emblema dell’anti-calcio: falli, falli e ancora falli. Praticamente non si gioca e si va ai tempi supplementari. L’extra time mantiene questa natura spezzettata ma è sempre la Jugo ad andare due volte vicina al gol che varrebbe l’Europeo, sempre sull’asse Džajić per Musemić. Nella prima occasione, il numero 11 fa sfilare il pallone sul lato corto dell’area di rigore, eludendo l’anticipo di Burgnich, e crossa in mezzo ma la punta bosniaca colpisce in pieno Zoff. Nella seconda, il serbo imbuca per il 9 che però calcia fuori di poco.
La partita termina 1-1 e il regolamento prevede il replay della partita, due giorni dopo sempre allo stadio Olimpico. Per l’Italia poter rigiocare la partita sembra una manna dal cielo, per gli slavi lo spettro dell’ennesima morte estetica inizia a farsi strada sgomitando.
Europeo 1968: il replay della finale
Se Mitić sostituisce solo l’ala destra, Valcareggi comprende che qualcosa va cambiato rispetto alla partita di due giorni prima, a partire dagli interpreti: fuori Catano, Lodetti, Ferrini, Juliano e Prati. Dentro Salvadore, Rosato, De Sisti, ma soprattutto Mazzola e Riva. Ciò che cambia per davvero però è l’atteggiamento delle due squadre in campo: l’Italia è aggressiva, dinamica e non lascia il minimo tempo alla Jugo per intrecciare la sua tipica rete di passaggi, mentre il gigante slavo sembra essere nella sua versione di bell’addormentato, appena svegliato da una secchiata d’acqua gelida.
All’ottavo minuto la prima occasione azzurra: spiovente in area, Riva fa la sponda per Anastasi che colpisce largo di poco. Tre minuti dopo, Riva tira dal limite un pallone insidioso che Pantelić allunga in corner; sulla battuta, la difesa balcanica allontana, Rosato raccoglie, verticalizza per Domenghini che calcia un pallone molto strozzato di sinistro verso la porta. Sulla traiettoria, Riva stoppa dal centro dell’area e imbuca con quella gamba sinistra che un anno prima proprio all’Olimpico si era spezzata: 1-0 Italia.
La reazione slava non si fa attendere molto: al 17esimo, una punizione dal lato sinistro dell’area di rigore porta ad un cross per il colpo di testa di Musemić, che finisce fuori di pochissimo a Zoff battuto. Ma come capitato ad Anastasi nella prima partita, l’occasione del bosniaco è solo un momento sporadico nell’assolo azzurro.
Per tutto il primo tempo, anche se la Jugoslavia controlla il possesso del pallone, l’Italia è insuperabile nei contrasti e negli uno contro uno e crea una serie di occasioni limpide per il raddoppio. Al 27esimo, Anastasi, rinato rispetto alla partita di due giorni prima, controlla un campanile, serve Mazzola che crossa di esterno sinistro. Riva, solo in area, colpisce di testa ma Pantelić compie una grandissima parata.
Ecco, se ci sono due giocatori che brillano più di chiunque altro nel replay della finale sono proprio loro: Gigi Riva e Sandro Mazzola. Il primo abbina qualità sopra la media a una potenza atletica e fisica che la Jugoslavia non riesce minimamente ad arginare: segna un gol ma ne avrebbe potuti fare altri tre.
Al di là di Rombo di Tuono, però, il vero faro dell’Italia è Mazzola. Il trequartista interista per tutto il match si abbassa a dare molta copertura e a rompere le trame balcaniche, ricoprendo per lunghi tratti il ruolo dell’interno. L’interista è il giocatore col tasso tecnico più alto tra i ventidue campo, eppure ciò che più impressiona nel suo match è che è sempre a contrasto e ne esce sempre vincente. Recuperato il pallone, è il primo a spingere la transizione ed è l’innesco di quasi tutte le azioni pericolose degli azzurri. Decisamente il migliore, e probabilmente il più forte, in campo.
La strategia italiana continua a portare occasioni e al 31esimo dà i suoi frutti; dopo una bella azione della Jugo che porta ad un tiro dal limite ben parato da Zoff, l’Italia parte in contropiede con De Sisti che verticalizza per Anastasi al limite dell’area. Il neo-juventino controlla sollevandosi la palla e calcia al volo in mezza girata un tiro perfetto di destro a incrociare: 2-0 Italia grazie ad un super gol.
Da quel momento in poi, la seconda parte del match per gli azzurri sembra una formalità.
Ad inizio secondo tempo, Riva ha tre grandi occasioni per portare la gara sul 3-0: la prima è, ovviamente, su assist di Mazzola da punizione con l’anticipo di Rombo di Tuono che esce di pochissimo; la seconda è effettivamente un gol dell’attaccante del Cagliari, che però viene giustamente annullato per fuorigioco; la terza nasce nuovamente dai piedi di Mazzola, il cui lancio lungo viene mal interpretato dal portiere slavo che perde il pallone e lascia all’ala sinistra italiana la possibilità di calciare a porta vuota in spaccata ma la palla finisce alta.
Al 30esimo c’è l’ultima possibilità per la Jugo con Musemić che sbaglia l’ennesima occasione della sua doppia finale. Sul salvataggio di Zoff finisce ogni sogno di gloria balcanico, e poco dopo una punizione di Domenghini molto simile a quella del primo match ma finita di un pelo sul fondo, allo stadio Olimpico qualcuno prende un giornale e gli da fuoco, dando il via ad una meravigliosa quanto pericolosa fiaccolata improvvisata che culla la nazionale verso il suo terzo titolo internazionale, tuttora l’unico a livello europeo.
L’arbitro Ortiz de Mendíbil fischia tre volte e l’Italia è campione d’Europa mentre “gli slavi’– dice sempre Buffa – ‘sono morti sabato nella loro bellezza”. Facchetti può alzare la coppa con la sua numero 10 sulle spalle davanti agli occhi di Vittorio Pozzo, l’ultimo allenatore azzurro vincente.
Per Pozzo, l’inventore del Metodo, sarà quasi una liberazione tanto che, casualmente o meno, morirà a dicembre di quell’anno dopo aver la sua nazionale trionfare allo stadio.
Due anni dopo, al mondiale di Messico ’70, l’Italia di Valcareggi si confermerà la miglior squadra europea ma verrà sconfitta in finale dal magnifico Brasile dei cinque numeri 10: Gerson, Rivelino, Tostao, Jairzinho e, ovviamente, Pelé. Nell’edizione successiva, l’Italia fallirà la difesa del titolo uscendo contro il Belgio nei quarti di finale mentre a contendersi la coppa nella finale di Bruxelles ’72 saranno Germania dell’Ovest e Unione Sovietica, ma questa, “beh questa è un’altra storia”.
Abbiamo scritto anche delle altre edizioni degli Europei: ’72, ’76, ’80, ’84, ’88, ’92, ’96, ’00, ’04, ’08, ’12, ’16.