Il calcio Basco porta con sé un’immagine di sofisticato anacronismo: tenace, orgoglioso, patriotico. La leggendaria autarchia dell’Athletic Club e il suo monumentale San Mamés, la resistenza passiva del derby dell’ikurrina e la lotta per Euskal Selekzioa, la selezione basca, sono simboli che segnano a doppio filo la storia del calcio iberico. Lo sapevate che il soprannome le furie rosse si deve ad un basco? O che il Pichichi, l’attaccante a cui è dedicato il premio di capocannoniere della Liga assegnato da Marca, era di Bilbao e giocava per l’Athletic? O che lo stesso Marca, giornale tipicamente associato al Real Madrid, è stato fondato nel 1938 a San Sebastiàn, nei Paesi Baschi?
Ma andiamo per ordine partendo dall’inizio: il calcio d’inizio del fùtbol di livello si ha, come avrete capito, proprio nell’Euskal Herria.
Il primo seme del calcio in Spagna è stato piantato dagli stessi agricoltori di quasi tutto il resto del mondo: gli inglesi. Grazie agli scambi commerciali che l’impero britannico sostiene con le coste spagnole, numerosi allenatori, calciatori e appassionati arrivano nella penisola iberica e, al contempo, numerosi giovani studenti partono verso la Gran Bretagna dove imparano la cultura inglese e il gioco ormai prediletto: il calcio.
Se il primo contatto con il pallone si deve all’imprenditore minerario Hugh Matheson nell’Andalusia, la prima superpotenza del calcio iberico è fondata a Bilbao nel 1903 grazie alla fusione etnica tra lavoratori inglesi e studenti spagnoli di ritorno dal Regno Unito. Non è un caso che il nome del club abbia tutt’oggi una chiara origine anglofona: Athletic Club. Non il più comune Athletic Bilbao, che per i baschi è legato al nomignolo dispregiativo “il Bilbao”, e men che meno l’Atletico Bilbao, come la dittatura franchista provò ad imporre agli orgogliosi euskaldunak.
Molto curiosa la storia alla base degli storici colori zurigorri, divenuti il simbolo del club quasi per caso: infatti, in origine l’Athletic indossava una camiseta bianca e blu, come quella del Blackburn Rovers. Quando le vecchie maglie iniziano a diventare inutilizzabili per l’usura, la dirigenza incarica il giovane Juan Elorduy, in viaggio verso Londra per festeggiare il Natale 1909, di acquistare 25 divise del club inglese.
Venuto il tempo di ritornare in Spagna, Juan si rende conto che le magliette disponibili non erano abbastanza e, di passaggio per il porto di Southampton, si accontenta delle divise della squadra locale bianco e rosse, dopo tutto si trattava pur sempre dei colori del comune di Bilbao. Fortunatamente per il ragazzo, le divise portano fortuna dato che vengono indossate nella finale vincente della Copa del Rey 1910, giocata a San Sebastiàn contro il Vasconia Sporting, l’antenato dell’attuale Real Sociedad. Da quel momento, le magliette zurigorri non sono più state abbandonate.
Sempre a quel periodo si devono gli altri due grandi simboli dell’Athletic Club: la filosofia Athletic e il leggendario San Mamés. Innanzitutto, va fatta una premessa: l’autarchia del club basco non deriva da volontà politiche, né tanto meno da un sentimento di superiorità razziale. Infatti, va tenuto a mente che, per quanto sia una squadra fieramente e indiscutibilmente basca legata culturalmente alle idee indipendentiste, il legame tra il club e il nazionalismo è estremamente flebile e non esiste un collegamento diretto con i noti terroristi dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Paese Basco e Libertà).
L’origine si deve ad una vicenda sportiva: nella Coppa del Re 1911, l’Athletic è vittima del fuoco incrociato di Barcellona e Real Sociedad che, dopo essere stati squalificati dalla competizione per aver giocato con giocatori inglesi non regolarmente tesserati, rivendicano lo stesso malfatto al club di Bilbao. Dopo giorni di discussione, l’Athletic può difendere il suo titolo con i giocatori rimasti disponibili ma da quel giorno rinuncia al tesseramento di giocatori stranieri.
Un’ulteriore spinta verso l’esclusività basca si ha grazie ad un fenomeno naturale: il talento. Sì, perché i baschi sono i mattatori del primo trentennio del calcio iberico: dal 1903 al 1936, le squadre locali arrivano per 31 volte in finale di Copa del Rey e 19 volte la vincono (13 successi proprio dell’Athletic); inoltre, quando la Liga viene istituita nel 1928, quattro club sui dieci partecipanti hanno sede nell’Euskal Herria.
Il dominio del calcio basco sul resto del paese è ancora più evidente a livello di selezione nazionale: alle Olimpiadi del 1920, in cui la Spagna vince l’argento all’esordio, dodici giocatori su 18 sono baschi e nella selezione del 1934 che batte il Brasile ai Mondiali italiani, dieci titolari su undici sono euskaldunak (fatta eccezione per Zamora, lo storico portiere catalano a cui è dedicato il premio di miglior portiere della Liga).
Questo turbinio di talento locale trova nel 1913 la sua casa: viene costruito il San Mamès, il primo stadio calcistico della penisola iberica, che rimane la casa dell’Athletic e della selezione basca fino al 2013. Perché cercare giocatori dal resto della Spagna se i baschi sono i più forti e giocano nello scenario più bello di Spagna?
Proprio a due membri baschi della nazionale olimpica di Anversa si devono due figure leggendarie del calcio spagnolo: il Pichichi e il soprannome le furie rosse.
Il Pichichi si chiamava Rafael Moreno Aranzadi, attaccante dell’Athletic e della nazionale dal 1911 al 1921, così soprannominato per via della scarsa altezza, e riconosciuto, oltre che per i tanti gol in maglia zurigorri (circa 200 in 170 partite), per via del copricapo bianco che indossava in ogni partita. Aranzadi fa parte della nazionale che vinse l’argento alle Olimpiadi (segnando il gol del 3-1 nella finale per il secondo posto) ma nel 1922 muore molto prematuramente a causa del tifo.
Nel 1953, Marca, ormai divenuto giornale madrileno e franchista, istituisce il premio “Pichichi” per il miglior marcatore della Liga e sceglie proprio il basco come simbolo, non tanto per la sua grande prolificità, quanto perché rappresenta l’uomo spagnolo cristiano che tanto piace al regime.
Tra i Pichichi c’è anche Christian Vieri, che segna 24 gol con l’Atletico Madrid nel 97-98, e quel premio ideato per la Spagna e la spagnolità è andato ad uno spagnolo una sola volta negli ultimi 18 anni, a Daniel Güiza nel 2008 (attaccante ricordato in Italia per la litigata tra Caressa-DeGrandis in un celebre episodio di Mondo Gol).
L’altro evento legato a quella competizione a cinque cerchi è la coniazione del soprannome le furie rosse. La Spagna perde nei quarti di finale contro il Belgio, che vince la medaglia d’oro sconfiggendo in finale la Cecoslovacchia. Tuttavia, i cecoslovacchi contestarono fortemente l’arbitraggio del match, abbandonando il campo in segno di protesta a pochi minuti dalla fine e richiedendo la ripetizione della partita. Per tutta risposta, gli organizzatori li squalificarono, rendendo il torneo di consolazione valido per l’assegnazione delle medaglie meno nobili.
La Spagna supera la Svezia 2-1, l’Italia 2-0 e i Paesi Bassi 3-1 ma è alla prima partita che si deve l’evento storico de la furia. Sotto di un gol a fine primo tempo, gli spagnoli rientrano in campo con un’aggressività inaudita che si manifesta nel gol dell’1-1 del basco dell’Athletic José María Belauste. Il difensore si avventa su un cross deviato e portando con sé svariati avversari, scaraventa il pallone in rete segnando, per usare le parole del giornalista spagnolo Manuel de Castro, “un gol erculeo”.
Il giorno dopo, un giornale olandese paragona la ferocia dello stile spagnolo, a quella delle truppe spagnole che saccheggiarono Anversa nel 1576, coniando il termine la furia. Da quel momento, gli iberici adottano il soprannome, abbinandolo al colore della propria maglia: la Furia Roja. Così come in Italia lo stile della nazionale di Pozzo rappresentava la ferocia del nuovo uomo italiano, Franco non poteva essere più orgoglioso che alla sua squadra venisse associata l’immagine della forza e della violenza.
Proprio al regime, si deve la spinta finale verso l’autarchia basca. Nel periodo in cui il dittatore cerca di cancellare ogni forma di cultura diversa da quella castillana, i baschi trovano nella loro tenacia, nel loro orgoglio e nel pallone la forza per affermare la loro identità con più forza che mai.
Se nel resto della regione vengono chiuse le scuole basche, vietato l’utilizzo dell’Eureska (la lingua basca) e l’esposizione della ikurriña (la bandiera), il San Mamés di Bilbao e l’Atotxa di San Sebastiàn divengono delle vere e proprie cattedrali della cultura basca: sui gradoni degli impianti migliaia di persona cantano cori in Eureska e sventolano il tricolore italiano, che ha gli stessi colori della loro bandiera.
Essere baschi non è più un semplice quanto forte legame con la propria terra ma è resistenza all’oppressore, resistenza alla cancellazione della propria identità.
ARROTZ-HERRI, OTSO-HERRI: un paese straniero è un paese di lupi. Dunque, Athletic e Real Sociedad si uniscono in quella che Gianni Mura definì “un’ostinata eresia”, tesserando solo giocatori nati nell’Euskal Herria, concetto che fa riferimento più al legame culturale che territoriale comprendendo anche zone della Navarra e dei Paesi Baschi francesi.
L’oppressione del regime va avanti per circa 40 anni, in cui comunque Real Sociedad e Athletic raccolgono successi a livello nazionale contro le superpotenze spagnole, fino alla morte di Francisco Franco nel novembre del 1975. Le leggi soppressive restano in vigore ma nel mondo delle minoranze spagnole si è aperto uno spiraglio, una luce che per i baschi ha tre colori: rosso, bianco e verde.
A portare quella luce per illuminare la regione come un tedoforo con la fiaccola olimpico, è nuovamente il calcio, nella sua forma antropomorfa di Josean de la Hoz Uranga, giocatore della Real Sociedad, di Ignacio Kortabarria, capitano del club di San Sebastiàn, e di Josè Angel Iribar, capitano dell’Athletic.
È il 5 dicembre 1976 e allo stadio Atotxa va in scena il derby tra i biancoblu e i biancorossi. All’ingresso delle squadre in campo, Uranga tira fuori dal fondo del borsone delle borracce, una bandiera rossa, bianca e verde e la consegna ai capitani, che la portano assieme fino al centro del campo. In quel momento, mostrando quell’ikurriña, i capitani e simboli del calcio basco mettono da parte la competizione sportiva per attaccare direttamente un nemico morente, quel regime che aveva cercato di sopprimerli.
Gli effetti del gesto furono immediati: il 19 gennaio viene approvato lo statuto basco e la bandiera legalizzata. Inoltre, quell’evento così simbolico segnò l’inizio di una nuova epoca d’oro del calcio basco. Nel ’77, l’Athletic finisce il campionato al terzo posto e giunge in finale di Copa del Rey; l’anno dopo ripete il risultato in Liga mentre nel 1980 la Real Sociedad arriva seconda.
Tutto è apparecchiato per quattro anni di dominio basco: nell’81 e ’82 la squadra di San Sebastiàn vince la Liga mentre nell’83 e ’84 tocca all’Athletic, che aggiunge al Palmares anche una Supercoppa e una Coppa del Re, l’ultima delle 23 vinte.
Purtroppo, finito quel periodo d’oro, i due baluardi si rendono conto di quanto sia difficile mantenere la propria ostinata eresia in un calcio sempre più globalizzato. La Real Sociedad, a causa di pesanti problemi economici, è costretta a rinunciarvi nel 1989, acquistando l’irlandese John Aldridge dopo 50 anni di autarchia, mentre l’Athletic estende la possibilità di tesseramento ai giocatori che si siano formati entro i 15 anni in un vivaio baschi.
Nel 1997, viene tesserato Bixente Lizarazu, futuro campione del Mondo e d’Europa con la Francia ma originario dei Paesi Baschi. Da quel momento, sono stati molteplice gli “stranieri” tesserati dal club come il brasiliano Biurrun, il messicano Iturriaga e il francese, ora al City, Laporte. Insomma, se il club di Bilbao ha mantenuto la sua filosofia, è dovuto comunque scendere a compromessi con la modernità.
Un evento curioso si deve a quegli anni: nella stagione 2000-01 il Deportivo Alavés, piccolo club di Vitòria, arriva in finale di Coppa Uefa contro il Liverpool al Westfalenstadion di Dortmund. La partita è ricordata come una delle più spettacolari della storia della competizione, conclusasi 5-4 al golden gol per gli inglesi. Il marcatore basco del 4-4 che ha mandato la partita ai supplementari? Jordi Cruijff, figlio del grande Johan, il cui nome fu un’evidente sfida al regime franchista. Un po’ come se il calcio abbia tentato di legare baschi e catalani nella lotta all’oppressione.
Oggi, seppur ben lontani dai fasti degli anni ’80, i baschi conservano il loro posto d’élite nel calcio spagnolo: sono cinque le squadre dell’Euskal Herria in Liga, Athletic, Real Sociedad, Eibar, Alavès e Osasuna (che ha sede a Pamplona, nella Navarra), e nel 2015 il club di Bilbao ha messo fine ad una siccità di trofei che durava da 31 anni grazie alla Supercoppa Spagnola. Tuttavia, Liga e Copa del Rey sono rimaste un tabù, almeno fino a domenica scorsa.
Il 4 aprile a Siviglia, Athletic e Real Sociedad, rivali da sempre ma nemiche mai, si sono affrontate per la Coppa del Re 2019/20, dopo mesi di attesa nella speranza di poter giocar la partita davanti al pubblico. Ha deciso un rigore di Mikel Oyarzabal che ha consegnato la coppa a Los Txuri-urdin (i biancoblu), mettendo fine a 39 anni senza trofei.
Tra l’altro, il derby di Copa è stato solo l’inizio di una settimana di calcio basco: mercoledì i due giganti si sono riaffrontate nel recupero di Liga, nella prima partita della storia trasmessa in streaming su Twitch. La partita è finita 1-1 come lo scontro di sabato tra gli zurigorri e l’Eibar, a conclusione della storica settimana dei Paesi Baschi.
L’Athletic però non ha da disperare per la sconfitta in Copa: il 17 gennaio ha vinto la sua terza Supercoppa, battendo il Real Madrid in semifinale e il Barcellona in finale, e tra cinque giorni avrà un’altra possibilità per assaltare la Copa, sempre a Siviglia ma contro il Barcellona. Se i baschi non sono più i dominatori del calcio spagnolo, una nuova epoca d’oro sembra tornata a manifestarsi tra le coste e i monti dell’Euskal Herria, come sempre ponendo al centro la propria terra e le proprie origini.
Infine, notizia di questi mesi è la richiesta ufficiale della Federcalcio basca di riconoscimento della selezione basca alla FIFA. Sebbene sia difficile che vedremo l’Euskal Selekzioa in campo in competizioni ufficiali, vi lascio con alcuni giocatori che la selezione, che in passato ha schierato giocatori del calibro di Xabi Alonso e Aduriz, potrebbe convocare: Kepa Arrizabalaga; Alvaro Odriozola, Javi Martinez, Iñigo Martinez, Yuri Berchiche; Mikel Merino, Ander Herrera; Alex Berenguer, Iker Muniain, Mikel Oyarzabal e Iñaki Williams. Non male per davvero.