Il motivo per cui ho voluto approcciare a questa piccola e spero non pretenziosa analisi risale a qualche settimana fa. Un utente nel gruppo Facebook “Spazio Calcio” si chiedeva come mai una tifoseria sentisse il bisogno di dedicare dei cori, invero poco carini, ad una tifoseria avversaria che, badate bene perché è un aspetto fondamentale, non era in quel momento presente allo stadio.
Per fare un esempio, perché la curva del Milan o dell’Inter dedica un coro ai cugini durante una qualsiasi partita di campionato extra-Derby?
Tralasciando tutti gli aspetti che non ci interessano e non ci riguardano sull’opportunità di questi atteggiamenti, è interessante provare a capire i motivi che stanno dietro a queste attenzioni che vediamo dedicate alle squadre rivali in ogni stadio e in ogni categoria, dalla Serie A ai non professionisti. Se gli avversari nemmeno sono presenti, a chi e a cosa servono queste manifestazioni?
Cos’è un gruppo sociale?
Una delle primissime nozioni che si imparano a maneggiare in un qualsiasi corso di Sociologia è: “Che cos’è un gruppo sociale?”. Coerentemente con il nostro bassissimo livello di pretenziosità, copiamo paro paro da Wikipedia: “Nella sociologia, un gruppo sociale è un insieme di individui che interagiscono gli uni con gli altri, in modo ordinato, sulla base di aspettative condivise riguardanti il rispettivo comportamento. È un insieme di persone i cui status e i cui ruoli sono interrelati (cioè in costante relazione tra loro)”.
È di immediata comprensione come una tifoseria di calcio allo stadio risponda a questi requisiti. Tra l’altro, se ci riflettiamo a fondo, il concetto di gruppo sociale vale sia per tifosi di squadre diverse ma anche per diversi tifosi della stessa squadra: per esemplificare, è evidente ci siano dei codici e dei comportamenti attesi diversi tra chi segue la partita nei distinti e chi preferisce andare in curva.
Per quanto riguarda le diverse tifoserie, e le curve in particolare, è plausibile sostenere che gli individui si liberino della propria maschera quotidiana, direbbe Goffman, per indossarne un’altra più congeniale al ruolo ricoperto all’interno degli spalti, ovvero alla partecipazione ai processi di socializzazione e d’interiorizzazione di norme e codici, e all’interpretazione soggettiva di significati sociali.
In altre parole, in curva io non sarò più un avvocato, un pompiere, una madre, uno studente: sono “solo” un tifoso che ha un ruolo atteso, con delle responsabilità precise nei confronti degli altri membri. Questo può tradursi anche cose molto banali, come ad esempio la regola non scritta di non indossare la maglia della Juventus in curva del Torino.
La vita quotidiana come rappresentazione
Ma che cosa sono queste maschere di cui parlavo prima? In sociologia questo concetto non ha una accezione negativa come può avere nella visione comune, indossare una maschera non è infatti sinonimo di falsità. “La vita quotidiana come rappresentazione” è il titolo di un libro di Goffman, sociologo canadese naturalizzato statunitense, in cui descrive le persone come veri e propri attori e i vari ambienti in cui questi si trovano come tanti diversi palcoscenici. Va da sé che ad ogni palcoscenico corrisponda una “parte” che il nostro attore sociale dovrà in qualche modo soddisfare.
Senza complicare troppo le cose, introduciamo brevemente anche il concetto padre di riflessioni come questa di Goffman: l’interazionismo simbolico. I tre principi fondamentali che disciplinano questo concetto sono:
- gli attori sociali agiscono nei confronti delle “cose” (oggetti fisici, esseri umani, istituzioni, la partita di calcio…) in base al significato che attribuiscono ad esse;
- il significato attribuito nasce dall’interazione tra i diversi individui ed è quindi condiviso tra questi (il significato è insomma un prodotto sociale);
- tali significati sono costruiti e ricostruiti attraverso un “processo interpretativo messo in atto da una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte” (Blumer).
Altro concetto fondamentale per il nostro discorso è quello di “altro generalizzato”, definito come “l’insieme di altri individui presenti in una scena” da Mead, tra i padri fondatori della psicologia sociale. Per il sociologo statunitense, l’altro generalizzato può essere usato per comprendere una data attività e il posto occupato dagli attori in quella data attività dalla prospettiva di tutti gli altri esercitanti quella stessa attività. Attraverso la comprensione dell’altro generalizzato, l’individuo capisce che tipo di comportamento è previsto, appropriato e così via, in differenti contesti sociali. L’altro generalizzato è il maggiore strumento di controllo sociale, è il meccanismo attraverso il quale la comunità ottiene il controllo sulla condotta dei membri individuali.
Tornando a parlare di tifosi, abbiamo quindi tutti le nozioni fondamentali per capire quanto possa essere complessa una riflessione sociologica su un evento “banale” come una partita di pallone. La partita di calcio avrà infatti per (quasi) tutti gli spettatori un significato simile e condiviso, e difficilmente qualcuno sceglierà di mettersi a studiare per l’esame di chimica in curva Sud a Milano. Questo avviene perché, con le esperienze vissute in precedenza, ognuno di noi ha un bagaglio di interazioni più o meno coerenti da cui attingere.
Tuttavia, non siamo robottini senza anima determinati meccanicisticamente dal nostro bagaglio, quindi pur sulla base di queste esperienze e nonostante esista una gamma di comportamenti attesi, ognuno di noi allo stadio (e nei diversi settori) sceglie autonomamente come interpretare la situazione.
Il tifoso allo stadio
Dopo aver parlato dei tifosi come parte di un gruppo sociale, e dopo aver discusso delle interazioni sociali, entriamo nel nocciolo della questione. Chi definisce chi è dentro e chi è fuori da un gruppo?
In effetti, nella stragrande maggioranza dei casi (tolti insomma i gruppi “istituiti”, cioè ad esempio “la classe quinta B” o il gruppo dei colleghi di lavoro), quello che separa un gruppo sociale da un altro (e dagli altri) sono i confini che il gruppo stesso definisce dal suo interno. È in altre parole tutto quello che NON è parte del gruppo a definire chi e cosa siamo noi in riferimento a questi determinati comportamenti e ruoli attesi.
Per quanto riguarda il tifo, sono proprio motivazioni di questo tipo a spingere una curva a cantare contro altre tifoserie. Questi concetti che sembrano così teorici sono in realtà radicati in ognuno di noi in quanto esseri sociali e sono alla base di tutti quei cori e di quegli atteggiamenti che hanno stimolato questa riflessione. Allo stadio, e soprattutto in curva, è un continuo definire chi siamo noi e chi è “l’altro”: “NOI non siamo napoletani”, “Milano siamo NOI”, “chi c***o siete VOI”, e così via.
E anche alcuni atteggiamenti attesi sono stimolati e quasi richiesti dal palcoscenico, come ad esempio quando vengono intonati cori tipo “chi non salta”, dove il contratto sociale (per quanto in un clima ludico) è esplicito: tu fai questa cosa e sei dei nostri, altrimenti sei uno degli altri.
Il 100% dei cori a cui ci riferiamo hanno insomma un significato sportivo molto blando, servono piuttosto a cementare il senso di appartenenza al gruppo/fazione, cosa molto sentita soprattutto nel tifo degli sport di squadra europeo (meno negli USA ad esempio). Non è un discorso “faccio il coro perché la mia squadra è meglio di quella rivale” (anche perché questi cori li fanno tutte le tifoserie), è piuttosto un modo di definire chi sono come tifoso e come appartenente ad un gruppo.
La prospettiva dei tesserati
Tutto quanto abbiamo detto finora potremmo riassumerlo nel “senso di appartenenza” che i tifosi hanno per i colori della propria squadra del cuore, qualsiasi sia lo sport. Ecco, sarebbe riduttivo pensare che questi sentimenti siano propri solo del pubblico e non tocchino anche chi lo sport lo pratica a questi livelli. Ovviamente dei professionisti hanno anche altri comportamenti attesi rispetto al loro ruolo (per rimanere nella sociologia, fanno semplicemente parte di un altro gruppo con altre interazioni), ma io penso sia sempre molto triste quando (ad esempio) un calciatore basa la sua carriera solo su questi comportamenti attesi non capendo, o non dando importanza a, tutti quei significati “altri” che ho provato brevemente a raccontare in questa riflessione.
Per andare nel concreto, anche un gesto banale come il bacio allo stemma della squadra va ponderato, non è cosa che poi si può facilmente ritrattare. Perché sono gesti plateali di cui adesso abbiamo gli strumenti per cogliere la vastità dei significati simbolici: significati che, badate bene, nessuno come i tifosi coglie, seppur più a livello istintivo che accademico. Per quanto abbiamo discusso finora è chiaro quanto sia profondo il mare del “sono parte del vostro gruppo”, tradotto in tutte quelle interazioni che un professionista ha per entrare nel gruppo simbolico rappresentato dallo stesso stemma o gli stessi colori, oltre quello che è il mero contratto di lavoro firmato.
Non è casuale quindi come uno dei cori più pregni di significato sia proprio “uno di noi, Pincopallino uno di noi” quando questo legame è fortemente percepito dalla tifoseria. Sei uno di noi, sei parte del gruppo, non sei “solo” uno che lavora per quella determinata società. Ripensiamo a quanto detto sull’interazionismo simbolico, in questo caso non tra pari.
A scanso di equivoci, non è mia intenzione fare discorsi apologetici sul non cambiare società sportiva durante una carriera professionistica. Il discorso è dare importanza a questioni che invece troppo spesso vengono per ignoranza sminuite se non proprio stigmatizzate. E l’ignoranza in questo caso non è quella dei tifosi trogloditi che hanno assurde pretese o reazioni scomposte contro chi “tradisce” (certo, in alcuni casi anche questa è ignoranza), ma di chi non coglie la potenza di tutti questi (e altri) significati simbolici che abbiamo solo sfiorato qui. E parlo sia di addetti ai lavori che, purtroppo, di media.
Nessuno obbliga un professionista a mettere in atto strategie comunicative (coscienti o meno che siano) per entrare a far parte del gruppo/fazione, ma una volta che questo accade ci sono tanti onori che fanno certamente piacere, ma anche tanti oneri. Manipolare insomma questi significati, per chi ha il potere di farlo, è scorretto, se fatto coscientemente, o stupido, se fatto per errore. Ed anche le narrazioni per cui chi “rimane” è perché “rinuncia” alla carriera sono superficiali: chi fa una scelta piuttosto che un’altra è semplicemente chi, legittimamente in entrambi i casi, interpreta diversamente e quindi dà significati diversi alle diverse interazioni sociali in cui si imbatte quotidianamente.
Chiudiamo volutamente con della retorica inutile: c’è chi preferisce regalare un sorriso ad un bambino e c’è chi preferisce guadagnare più soldi. E nessuno dei due sbaglia, soprattutto se si colgono i significati, in un caso abbastanza immediati per chi ha una calcolatrice, nell’altro servono invece riflessioni più articolate, che stanno dietro a queste scelte.