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“Fernando, in porta tu non ci giochi più! Vuoi continuare a giocare a calcio? Cambia ruolo allora, ma non portiere!”. Con questa frase mamma Flori accoglie a casa i suoi figli Israel e Fernando, insanguinato e con due denti nel palmo della sua mano, in un tardo pomeriggio a Fuenlabrada, alle porte di Madrid.
La duplice svolta di Fernando
Fernando, il piccolo di casa, ed Israel, il fratellone, sono soliti guardare “Oliver y Benji” per poi scendere in strada a replicare ogni mossa. I ruoli sono chiari, Fernando tira ed Israel para, d’altronde quest’ultimo è portiere a tutti gli effetti. Però a Fernando l’idea di indossare i guantoni e tuffarsi come il fratello lo attira e non poco, pertanto inizia una breve carriera tra i pali. Breve appunto, perché poi mamma Flori lo costringe a tornare in attacco, persino lei si accorge che suo figlio è il più forte del quartiere. Poi di certo non vuole un figlio dalla bella chioma bionda e senza denti!
La famiglia Torres trascorre le domeniche a Valdeavero, dall’altra parte di Madrid, quasi al confine con la Castiglia – La Mancia, terra di Don Chisciotte. È una cittadina di 702 abitanti, le prime 700 unità sono irrilevanti ai fini della storia, i restanti due sono i signori Sanz, Eulalio e Paz, genitori di mamma Flori e quindi nonni materni di Fernando.
“Nonno Eulalio possedeva un bel piatto con inciso il suo nome e lo scudetto dell’Atlético de Madrid, devo ammettere che il mio abuelo era dell’Atlético, anzi muy del Atlético”. Eulalio, d’altronde, era una vera e propria enciclopedia colchonera, racconta al nipote tutto ciò che sa e termina ogni aneddoto con la frase: “Recuerda Fernando, l’Atlético es el mejor equipo del mundo“. Niente da fare per José Torres, galiziano e votato alla causa del Depor di La Coruña, suo figlio Fernando è ormai innamorato dell’Atleti.
Nel 1995, tornando dai nonni, Fernando porta una grande notizia ad Eulalio: quell’Atletico Madrid di cui il nonno parla sempre, ha visto giocare il suo nipotino e lo ha considerato apto (adatto) per la propria cantera. Alla fine di quell’anno, infatti, i responsabili delle giovanili avrebbero selezionato i migliori tre giocatori del campionato giovanile locale ed a Fernando è bastato realizzare 55 gol con la maglia del suo Rayo 13 per essere nella rosa dei “vincitori”.
Nasce così la storia rojiblanca di Fernando José Torres Sanz.
La prima vittoria risale al 1999, in Italia, a Reggio Emilia, quando l’Atletico Madrid porta a casa la Nike Cup. Gioca una competizione da assoluto protagonista attraendo a sé gli occhi di tutti gli scout, al punto che, non appena Fernando scende dall’aereo a Barajas, la società lo blinda facendogli firmare un contratto quinquennale. Ovviamente nel contratto è presente la solita modesta clausola rescissoria/deterrente, questa volta di 174 miliardi di lire. Il giovane delantero deve rimanere patrimonio dell’Atlético. Nel 2001, poi, Torres vince l’Europeo U16 in Inghilterra con la Spagna, con un suo gol in finale contro la Francia, fino ad allora mai perforata.
Anche in questa occasione il ritorno a Madrid riserva delle sorprese, giusto il tempo di esprimere un desiderio alle telecamere, che nel frattempo lo accerchiano, ossia quello di raggiungere la prima squadra, “Fernando, Atleti o Real?”, “Atleti, claro”.
A quel punto gli si presenta davanti Paulo Futre, leggenda atlética ed all’epoca ds del club madrileno, che gli chiede: “sai perché sei qui all’Atlético Madrid?” Non lo sai, niño? Perché tu da domani inizi ad allenarti con la prima squadra!”.
Futre pensa di trovarsi di fronte il solito Fernando, timido, introverso e invece. Invece Fernando afferma di sentirsi pronto e di non vedere l’ora di iniziare, è uno dei primi a presentarsi all’allenamento.
Il fenomeno Niño
Il debutto ufficiale arriva il 27 maggio 2001, davanti al pubblico del Vicente Calderon, indossa la numero 35, la numerazione classica per i giovani. Fernando conosce ogni singola mattonella dello stadio, sa a memoria la strada che dal parcheggio porta al museo. Sin da piccolo si fa accompagnare da papà José, ogni volta quest’ultimo dice: “stiamo andando in un posto speciale”, ma Fernando sente che la strada è quella giusta. Non fa domande, si gode la vista e l’attesa.
Lo stadio, incredibilmente, impazzisce subito per il niño ed impiega pochi minuti per cantare il suo nome durante la partita.
Sei giorni dopo, il 3 giugno contro l’Albacete, Fernando subentra a Kiko ed al 35’ del secondo tempo realizza la sua prima rete nel calcio professionistico. È definitivamente sbocciato l’amore con il mondo dell’Atleti, i ragazzini, fuori lo stadio, fanno a gara per avere un suo autografo.
In pochi mesi il fenomeno niño esplode in tutta la Spagna, Fernando diventa la locomotora dell’immagine del club, non a caso molti brand si danno battaglia per ingaggiarlo come testimonial dei propri prodotti. Viso angelico, niente barba e bellissimi capelli biondi. Per un attimo si è pensato di costruire un’immagine di Torres che possa in qualche modo renderlo il nuovo Beckham di Spagna. Ma Fernando Torres vuole essere Fernando Torres. Ancora Futre: “lo abbiamo controllato, sapevamo ogni suo passo, ogni suo gesto, eppure lui è rimasto quello di sempre“.
Fernando è molto superstizioso ed i capelli rappresentano un vero talismano. Questi vanno tagliati solo quando perdono il loro effetto protettivo, se il nuovo taglio porta alla causa altri gol, si mantiene quello. Stesso discorso per scarpe ed altri accessori.
La stagione del debutto di Fernando, è anche l’anno dell’inferno chiamato Segunda Division in cui è caduto l’Atleti, infatti obiettivo/ossessione della temporada in corso è quello di tornare nella massima serie. Non tutto, però, va secondo i piani, arriva maggio ed il popolo dell’Atleti si trova di fronte alla prospettiva di un’altra stagione in cadetteria.
La delusione è troppo forte, per Fernando, la squadra e tutti i tifosi. Questi ultimi, gridano al niño “non andare via, resta qui!”. Fernando chiarisce: “Per la prima volta nella mia vita professionale ho conosciuto il fracaso, ma non ho motivi per andare via, l’anno prossimo si riparte”. Quindi no, Fernando non andrà via, anzi, ora arriverà l’unico vero motivo per restare.
Prima di riniziare con la maglia rojiblanca, c’è una cosa che Torres deve fare. È luglio e va dall’agente chiedendogli un favore: “portami all’aeroporto, devo andare in Galizia a chiedere ad Olalla di uscire”.
I due si sono conosciuti sulle spiagge della Galizia in un torrido ferragosto dei primi anni ‘90. Papà José compra una casa dove portare la sua famiglia durante le ferie estive, nove ore di auto ma valgono assolutamente la pena. Olalla assiste a tutti i tornei estivi disputati da Fernando. I due non si danno alcun appuntamento, lei semplicemente si siede sulle tribune, lui si guarda attorno pensando ansiosamente: “chissà se verrà”.
Ogni estate la trascorre con la sua nuova fidanzata e, quando torna, Fernando ha un sorriso stampato che non se ne va più ma allo stesso tempo ancor più indemoniato.
Una strana clausola
“Vieni Luis, leggiamo il tuo contratto. Bene, c’è scritto che puoi svincolarti dal Mallorca a costo zero per allenare una grande squadra di Spagna: la Nazionale, il Real Madrid, il Barcellona e…”
“Dai dillo”
“…e l’Atletico di Madrid”
“…e l’Atletico di Madrid!!!”
Luis Aragonés è senza dubbio uno dei personaggi più controversi ma anche più influenti della storia del calcio spagnolo. Madrileno, nato nel quartiere di Hortaleza, cresce frequentando la scuola privata di Nuestra Señora del Recuerdo, nel cuore di Chamartin, campi bellissimi ed introvabili nella Madrid del secondo dopoguerra.
Luis sin da piccolo ama tre cose: la matematica, calcola ogni singola mossa, non lascia alcun elemento fuori dalle sue formule tattiche; l’altruismo, come i suoi nonni ed i genitori che sono soliti organizzare tavolate, aprendo le porte di casa anche a gente bisognosa; vuole sempre avere ragione ed il suo carattere burbero, la sua fisicità ed il timbro di voce ne sono la perfetta testimonianza. Dal combinato disposto di questi tre elementi, Luis ti spiega, senza mezzi termini, come stanno le cose, perché gli piaci ma soprattutto perché ha ragione lui. Il giorno fortunato per chiunque.
Mediocampista offensivo, Aragonés intraprende la sua carriera da calciatore nel Getafe, per poi essere tesserato dal Real Madrid, squadra in cui non riuscirà a giocare perché nessuno vuole scommettere su di lui. Parte quindi in giro per la Spagna in prestito, Recreativo Huelva, Hercules, Plus Ultra (l’odierno Real Madrid Castilla) e Real Oviedo, ma i blancos restano un miraggio, tanto che nell’estate del 1961 passa a titolo definitivo al Betis Siviglia.
In una partita a Madrid contro il Real, Luis Aragones gioca un’altra delle sue belle partite, tanto che cattura gli occhi vigili di Santiago Bernabeu in persona, allora presidente del club, il quale domanderà a fine partita: “ma questo qui non era nostro?”. Il presidente lo rivuole ma Luis è un tipo orgoglioso, vuole avere ragione ed è schietto, quindi rifila al grande Santiago un sonoro “no”.
Arriverà al Metropolitano, casa dell’Atleti, nel 1964, per poi terminare la carriera 10 anni dopo, vincendo ben tre campionati e due coppe di Spagna, realizzando oltre 130 gol. Nei suoi 30 anni da allenatore guida le squadre più importanti di Spagna, tra cui Betis Siviglia, Barcellona, Espanyol, Siviglia, Valencia. Conta, altresì, almeno quattro avventure sulla panchina dell’Atletico Madrid con cui arriva sul tetto del mondo grazie alla vittoria della Coppa Intercontinentale nel 1974 (al debutto in panchina).
Luis Aragonés approda nel Mallorca nell’estate del 2000 e porta la sua squadra a qualificarsi per la Champions League grazie al terzo posto finale in Liga. È una squadra con un potenziale enorme, basti osservare la coppia di attaccanti nemmeno ventenni, David Güiza e Samuel Eto’o.
Nella stagione successiva si apriranno le porte dell’Europa, ma c’è quella strana clausola di cui sopra, c’è l’Atleti, c’è il club che ama. È una squadra in difficoltà, cambia cinque allenatori in due anni ma è ancora in Segunda, ed ha disperatamente bisogno del suo Sabio, dell’unico uomo capace di risollevarla.
El Sabio, El Niño
Aragonés è esigente con tutti, quell’anno fa un lavoro tattico e mentale enorme, uno sforzo che va ben oltre il semplice allenatore. È la leyenda che arriva per istruire l’eroe che avrebbe portato via la sua squadra dal torpore della Segunda División. È solamente una questione di tempo, ma, da buon matematico, Luis calcola ma non fa predizioni sul futuro, lui vive nel presente, indi per cui Fernando non sarà un campione, lo è già, solo che non lo sa. “Ragazzo, tu non sai niente!”, glielo avrà ripetuto ogni santo giorno, ma dell’allenatore c’è da fidarsi. “Ah ragazzo, non imparare a fare rabone, doppi passi del cazzo o stronzate simili. Tu fai gol”.
E Fernando sente la fiducia che Aragonés pone in lui, sente che certi traguardi sono possibili e che ascoltarlo rappresenta la giusta via per raggiungerli. “È il mio maestro di calcio”, Luis gli insegna innanzitutto cosa vuol dire essere un professionista, d’altronde Torres è un diciassettenne catapultato in un ambiente caldo e fragile come quell’Atletico Madrid. Gli insegna il rapporto con i media, sempre pronti a ricamare su frasi innocue. Inoltre gli insegna a mettere a freno le sue ambizioni, a riconoscere i compagni di squadra sinceri da quelli che cavalcano l’onda mediatica del fenomeno niño.
La cosa che più colpisce il giovane attaccante è l’esclusività di queste lezioni, a sua detta Luis non ha mai rivolto così tante attenzioni nei confronti di un suo calciatore.
La stagione si conclude con la promozione in Liga, Torres non ha grandi numeri, giusto qualche gol, ma è il bagaglio che ha riempito è ciò che più conta. Fernando parla della promozione come un debito da saldare con i suoi tifosi e con la storia del club ed il giusto risarcimento per i due anni di inferno è la promessa strappata di non scenderci più e di cominciare a vincere qualcosa. Parole di un capitano, non di un diciottenne, capitano che diventerà presto.
La prima stagione in Liga, con in panchina sempre Luis Aragonés, è senz’altro positiva per il ragazzo, segna 13 gol ed un paio di cose gli restano in mente, il gol in casa contro il Barcellona e la sfida contro il Deportivo La Coruna, la squadra di papà.
Fuori dal campo Luis Aragonés continua a lavorare sul ragazzo, non è mai domo il Saggio. Il campionato della Segunda è più tattico e più fisico, mentre in Liga tutte le squadre prediligono giocare. Quindi Torres deve evolvere il proprio gioco, deve essere più nella partita, in altri termini è per lui che i compagni devono lavorare. Luis ora ha plasmato un giocatore che sa usare il proprio fisico, ha rapidità e soprattutto legge bene i movimenti dei suoi compagni. Sa quando deve scattare in avanti e farsi servire in profondità, dettaglio importante questo.
Conclusa la stagione con una facile salvezza, le strade di Aragonés e dell’Atletico si separano perché la missione è finita ed il Mallorca ha chiesto nuovamente di assumere la guida della squadra. Separazione dolorosa, certo, ma il niño è pronto, sarà il capitano dell’Atletico Madrid a soli 19 anni.
EURO 2008
Le strade del Sabio e del Niño si ritrovano in Nazionale, Luis Aragonés, infatti, è diventato il nuovo Commissario tecnico delle Furie Rosse dopo l’esonero di Inaki Saez ed una brutta eliminazione ai gironi di Euro 2004. Aragonés trova una squadra sfiduciata con una stampa aggressiva e tremendamente critica nei confronti dei giocatori, lo sarà anche e soprattutto nei confronti di Luis, mai troppo gentile con i giornalisti. Neanche a dirlo, per il neo C.T. c’è ancora una volta un lavoro immenso di ricostruzione.
I mondiali di Germania nel 2006 terminano con la sconfitta per 3-1 e le solite critiche da parte di tutta la Spagna. Quello è anche il momento della svolta, l’indomani nascerà la Roja che aprirà un ciclo magico che culminerà con la vittoria dei mondiali in Sudafrica quattro anni dopo. È la nascita del prototipo del tiki-taka, un gioco di controllo, di attese, d’associazione, d’estro e di rapide verticalizzazioni.
Luis decide di tagliare dei giocatori, su tutti Raúl. Molti dicono che è una vendetta per il rancore che ancora riserva per i blancos, ma la verità è che Aragonés ha in mente un gioco diverso e giocatori allineati alla sua filosofia. All’ennesima domanda dei giornalisti, assolutamente pro Raúl, Luis risponde: “No me bajo los pantalones ni cuando me quito el cinturón” (“Non mi abbasso i pantaloni nemmeno quando mi tolgo la cintura”).
Agli Europei del 2008 il C.T. si rende conto di avere una rosa perfetta capace di vincere la competizione, solo che deve farlo capire alla sua squadra. “Ho vinto un Europeo nel 1964 con la Spagna da giocatore, fidatevi che ora ne vinco uno da allenatore” e aggiunge, senza filtri, “Yo si con este grupo no soy campeón, es que soy un mierda”. Luis Aragonés è categorico, non ci sono alternative.
Quindi fa da parafulmine ai suoi giocatori, attrae a sé tutte le critiche della stampa che, invece, non nutriva grosse speranze nella spedizione. Lascia parlare e scrivere ai giornalisti, se proprio deve esserci un capro espiatorio, che almeno sia lui.
Affida quindi la squadra all’intelligenza e la classe di Senna, Fabregas, Iniesta, Silva e Xavi, ma soprattutto al delantero Torres che dovrà concretizzare i palloni d’oro colato che gli serviranno i geni dietro di lui. Aragonés ha già calcolato tutto, il suo Fernando sarà decisivo.
Il rapporto tra il Sabio ed il Niño in Nazionale non cambia rispetto ai tempi dell’Atletico, ora Torres è più maturo, sono passati anni, ora gioca in Inghilterra, eppure ogni tanto gli riserva delle attenzioni particolari, lo sprona perché ha già in mente tutto.
Prima partita contro la Russia, il mister spiega come giocano gli avversari e come deve giocare la sua squadra: “Loro impostano solo con il difensore destro, chiudete le linee di passaggio, lasciatelo andare, servirà una palla lunga, allora mettete la gamba e non abbiate paura di buttare la palla in avanti. Fernando, quando ha la palla il difensore, tu stagli addosso e metti la gamba”.
Minuto 20, il difensore russo porta palla e sale fino al centrocampo, prova a lanciare per l’attaccante ma Capdevila anticipa il passaggio e la butta lunga per Torres, il marcatore gliela ruba ma Fernando mette la gamba, vince il duello e con un tocco serve Villa (che Europeo il suo). La Spagna si sblocca e la partita finisce 4-1.
La partita successiva è contro la Svezia, Aragones spiega ai suoi uno schema su punizione che gli è piaciuto nell’incontro precedente. È una sorta di triangolo, corner corto con passaggio dritto verso il compagno che dal primo palo si avvicinava portando via l’uomo, passaggio per un terzo compagno fuori area, cross di questo al centro sul primo palo e “Fernando, metti la gamba”. Schema eseguito alla perfezione, Torres realizza il primo gol europeo.
Seguono le partite contro la Grecia campione in carica, i rigori vinti contro l’Italia ai quarti e la Russia da affrontare di nuovo in semifinale. Luis Aragonés carica i suoi nel suo classico stile:
“Il vostro capitano si è sforzato per farvi raddoppiare il premio finale. Però ho scoperto quanto prendono i russi e sono un sacco di soldi. Quindi andate in campo e spaccate qualche culo. Non andate dall’arbitro a lamentarvi, l’arbitro è contro di noi e bla bla bla, siete diventati dei giocatori celebri, sfruttiamo questo vantaggio e dategli qualche pacca sulle spalle. A loro piace“. “Ah mi raccomando, lo stesso vale per i guardalinee, chiamate tutti per nome, io so tutto di loro. Andate verso di loro e chiamatelo Joseph, Jophes, non so manco come si pronunciano, però loro diranno «mierda, sanno come mi chiamo»”.
Non dà particolari indicazioni sulla partita, la squadra sa come affrontarli, dice solo a Silva ed Iniesta di cambiare posizione ogni 15 minuti perché a suo dire “non ci avrebbero capito nulla”, mentre agli altri dice: “Siete liberi di associarvi all’attacco, tutti. Evitate le finte, solo una volta. Appena potete tirate, tanto loro solo quello sanno fare“. Risultato finale, 3-0 Spagna e a detta di molti una delle partite più belle mai giocate dalla nazionale spagnola.
Ora arriva la finale contro la fortissima Germania.
Il giorno prima della partita, raccolti a centrocampo, Luis Aragonés spiega ai giocatori la sua visione: “dicono che c’è gloria anche per i vice campioni, lo dicono tutti ma è una stronzata. Se vinciamo festeggiamo e dato che siamo i più forti, vinceremo e festeggeremo”.
Il C.T. spiega la partita nel classico modo, poi si gira verso Xavi e gli fa una semplice raccomandazione: “ Xavi, quando hai il pallone, guarda il niño e servilo”.
In quella corsa c’è tutto, ci sono i racconti di Eulalio, la forza di José, i pomeriggi con la Flori sull’autobus o sul treno per andare agli allenamenti, gli occhi di Olalla, le urla di Luis. C’è un niño che è diventato grande. È troppo complesso descrivere quel gol per un bambino partito dalla periferia ed arrivato sul tetto d’Europa.
Dopo i festeggiamenti, sul pullman verso l’albergo lascia un messaggio ai suoi ragazzi: “io so che potete vincere anche il mondiale, avete tutto, siete organizzati. Dovete solo volerlo e lavorare, il resto verrà da sé”. Il resto è storia. Sono parole di uno che sa che quella sarà l’ultima volta che guiderà quei campioni, Luis non rinnova il contratto con la Federazione spagnola, vecchie ruggini con il Presidente Villar che di lì a qualche tempo dirà: “Grazie Luis per tutto, anche se sei stato il 5% della vittoria, il 95% è merito dei giocatori”. Bel tentativo, ma la storia e quei 23 ragazzi (ed una nazione intera) tuttora dicono altro.
Legame indissolubile
Fernando Torres e Luis Aragones non si ritroveranno mai più nella stessa squadra ma terranno ancora rapporti, si chiamano, si parlano molto, come hanno sempre fatto. Luis Aragonés muore nel 2014 dopo una lunga malattia e il nino, a quel tempo in forza al Chelsea, gli dedica il gol in Champions League contro il Galatasaray, in quella che è una sorta di derby considerato che Luis per un anno ha allenato anche il Fenerbahce. Torres di lì a poco tornerà all’Atletico Madrid per poi concludere la carriera in Giappone. Prima, però, c’è la presenza 370 con la maglia dell’Atletico e indovinate chi ha eguagliato?
La parentesi nipponica è stata appunto tale, le ultime partite di un campione che decide di lasciare gradualmente il calcio, nella patria di “Oliver y Benji”, lì dove tutto è nato con Israel, i denti rotti ed un borsone pieno di sogni e dei guantoni mai consumati, per fortuna di Flori e di tutti noi.
Ci sono due momenti che testimoniano il legame profondo tra Fernando e Luis Aragones, il primo risale al 20 maggio 2018, a fine partita il capitano è al centro, ha in mano il microfono pronto per prendere la parola e ringraziare tutti.
Un discorso semplice, interrotto da inevitabile commozione. Ringrazia il popolo atlético, quelli che sono stati sul suo percorso e tutta la sua famiglia, li nomina proprio tutti.
Poi fa due nomi. Inevitabili.
“Luis Aragonés, al quale non solo io, ma tutti dobbiamo qualcosa, ci ha mostrato il cammino e ciò che vuol dire Atlético Madrid”
E poi “a mi abuelo, que me dio el regalo más grande que se le puede dar a un nieto, que es hacerme del Atleti”. Non credo ci sia bisogno di traduzione.
Il secondo episodio è quello del 29 ottobre 2021, su iniziativa del Frente Atlético e grazie alle donazioni degli aficionados, viene eretta una statua raffigurante un giovane Luis Aragonés con la maglia dell’Atleti fuori dal Wanda Metropolitano. Lo stadio che sorge vicino la sua Hortaleza e che annovera già l’Avenida de Luis Aragones, strada di accesso all’impianto. Se non fosse chiara la devozione.
Alla presentazione sono presenti una delegazione della squadra e della dirigenza, i figli di Luis ed il suo collaboratore fedele. E poi c’è Fernando, ancora presente per rendere omaggio al suo grande maestro, questa volta, però, non da niño di Fuenla, ma da pari a pari, da leggenda.